Come disdire Telecom Italia
Nei giorni scorsi hai consultato il mio articolo sulle migliori ADSL ed hai dunque deciso di rimpiazzare il piano in essere di Telecom Italia (anzi, TIM), il tuo attuale gestore di telefonia fissa, con una delle tante offerte a listino degli altri operatori. Beh, se ritieni che per te sia la soluzione migliore non posso far altro se non dirti che fai bene, davvero. Tuttavia se ora sei qui e stai leggendo queste righe evidentemente è perché prima di gettarti a capofitto in questa nuova “avventura” ti piacerebbe capire quali operazioni compiere, di preciso, per poter disdire Telecom Italia. Mi sbaglio? No, ecco. Allora mettiti bello comodo ed inizia a concentrati sulla lettura di questo articolo.
Nelle righe successive andremo infatti a scoprire quali sono i passaggi che bisogna compiere non solo per disdire Telecom Italia in caso di passaggio ad altro gestore ma, per completezza di informazione, anche come procedere qualora desiderassi effettuare la cessazione totale della linea o il recesso entro i primi 14 giorni d’attivazione dello stesso. In tutti i casi, non temere… è molto più facile a farsi che a dirsi!.
Ovviamente, ti illustrerò anche come fare per restituire tutte le apparecchiature TIM eventualmente in tuo possesso e ricevute in comodato d’uso oppure a noleggio e quali sono i costi da sostenere in tutti i casi (ebbene si, purtroppo c’è quasi sempre da pagare!). Dunque dimmi, sei pronto a scoprire come disdire Telecom Italia? Si? Fantastico, allora procediamo!
Indice
Disdire Telecom Italia per passaggio ad altro operatore
Vuoi scoprire quali sono le operazioni che bisogna compiere per poter disdire Telecom Italia in caso di passaggio ad altro operatore? Bene, allora sappi che tutto ciò che devi fare altro non è che affidare la pratica all’azienda con cui intendi sottoscrivere il tuo nuovo contratto telefonico. Sarà infatti quest’ultima ad annullare l’abbonamento TIM al tuo posto e ad occuparsi di tutte le varie quisquilie legate alla messa in pratica dell’operazione.
Quello che tu dovrai fare sarà dunque contattare il gestore con il quale intendi abbonarti e fornire a quest’ultimo il codice segreto TIM (altrimenti detto codice di migrazione). Trattasi di un codice alfanumerico che identifica in maniera univoca la linea telefonica e permette di autorizzare velocemente il passaggio da un provider all’altro. Puoi trovarlo nella bolletta TIM, stampato subito sotto i dati dell’intestatario della fattura, per l’esattezza in corrispondenza del codice fiscale.
Nel caso in cui non riuscissi a trovare il codice segreto nella bolletta del telefono, puoi farne richiesta chiamando il 187 di TIM e chiedendo all’operatore con il quale ti ritroverai a parlare di fornirtelo. Se riscontri qualche difficoltà nel riuscire a districarti tra i “meandri” del servizio clienti di TIM, leggi il mio articolo su come fare per parlare con un operatore TIM per schiarirti le idee al riguardo.
A procedura avviata, i tempi previsti dalla legge per il passaggio al nuovo operatore sono 10 giorni lavorativi. Durante tale periodo tu non dovrai fare nulla, se non firmare alcuni documenti che ti verranno recapitati a casa secondo le indicazioni ricevute dal gestore. Se hai bisogno di maggiori informazioni, leggi pure il mio articolo su su come cambiare gestore telefonico tramite cui ho provveduto a fornirti spiegazioni estremamente dettagliate in merito.
Tieni comunque presente che anche in caso di migrazione verso un operatore alternativo sei obbligato a versare a TIM i costi di disattivazione ed a restituire tutte le apparecchiature che hai ricevuto in comodato d’uso. Per saperne di più, consulta l’apposita sezione che trovi nella parte finale di questo tutorial.
Disdire Telecom Italia per cessazione completa della linea
Se invece desideri scoprire in che modo bisogna procedere per disdire Telecom Italia andando ad effettuare la cessazione completa della linea, devi innanzitutto munirti dell’apposito modulo che dovrai poi preoccuparti di spedire a TIM
Per ottenere il modulo, collegati alla sezione dedicata alla modulistica del sito Internet dell’operatore facendo clic qui dopodiché clicca sul bottone Vedi tutti che trovi collocato sotto la voce Fisso ed effettuare il modulo di recesso più adatto al contratto che hai sottoscritto. Se hai sottoscritto un abbonamento che prevedeva la presenza di un telefono a noleggio, scarica il modulo Modulo recesso linea telefonica con telefono a noleggio, altrimenti scegli il Modulo recesso linea telefonica senza telefono a noleggio.
Per effettuare il download del modulo, clicca sul bottone Scarica che trovi collocato accanto al suo titolo e poi sulla voce qui presente in fondo al riquadro che si apre. Se il modulo non viene scaricato sul computer ma aperto direttamente nel browser, clicca sull’icona della freccia o su quella del floppy disk per avviarne subito il download.
Un volta scaricato il modulo, stampalo, compilalo, firmalo e spediscilo tramite raccomandata A/R al seguente indirizzo. La cessazione effettiva della linea dovrebbe avvenire entro 15 giorni.
TIM Servizio Clienti Residenziali, Casella Postale 111 – 00054 Fiumicino (Roma)
Tieni comunque presente che in tal caso dovrai sostenere dei costi di disattivazione del servizio e dovrai provvedere a consegnare tutte le apparecchiature ricevute in comodato d’uso o a noleggio. Per maggiori info, leggi la parte finale di questa guida.
Disdire Telecom Italia entro i primi 14 giorni d’attivazione
Se invece hai sottoscritto un abbonamento con TIM da meno di 14 giorni ma ora ci hai ripensato e vuoi capire come disdire Telecom Italia ho una buona, anzi ottima notizia da darti: puoi usufruire del diritto di recesso previsto dalla legge e portare a termine tutta la procedura senza dover spendere neppure un centesimo (è l’unico caso in cui è possibile!). Per avvalerti del diritto di recesso è tuttavia indispensabile che il tuo contratto con TIM sia stato stipulato a distanza o comunque al di fuori dei locali commerciali dell’azienda.
Se rispetti i requisiti di cui sopra, fai clic qui per scaricare il modulo di recesso (“ripensamento” entro 14 giorni) dal sito Internet di TIM, stampalo, compilalo in ogni sua parte, firmalo e spediscilo via fax al numero 800 000187. Se vuoi effettuare il passaggio a un altro operatore, puoi inviare il modulo a mezzo raccomandata A/R all’indirizzo che trovi indicato qui sotto. Se invece desideri cessare completamente la linea, l’indirizzo a cui spedire tutta la documentazione è quello che ti ho fornito nelle precedenti righe, quando ti ho spiegato come disdire Telecom Italia andando ad effettuare la cessazione completa della linea.
TIM Servizio Clienti Residenziali, Casella Postale 123 – 00054 Fiumicino (Roma)
Se non sai come fare per scaricare il modulo, clicca sul pulsante Scarica che trovi collocato accanto al suo titolo e poi sulla voce qui presente in fondo al riquadro che si apre. Se il modulo non viene scaricato sul computer ma aperto direttamente nel browser, clicca sull’icona della freccia o su quella del floppy disk per avviarne subito il download.
In seguito, ricordati di restituire eventuali apparecchi ricevuti in comodato d’uso dall’operatore o che hai provveduto a noleggiare dallo stesso. Trovi tutte le spiegazioni di cui hai bisogno proprio qui sotto.
Costi
Ora che hai finalmente capito come fare per potere disdire Telecom Italia posiamo passare al sempre spinoso discorso costi. In tutti i casi, TIM prevede delle “tariffe” fisse, pari a 35,18 euro per le linee ADSL/voce e 99 euro per le linee in fibra ottica.
Alle cifre in questione possono però aggiungersi anche altri addebiti quali eventuali residui dovuti all’allacciamento della linea effettuata al momento della sottoscrizione del contratto e/o penali dovute al recesso anticipato da piani con vincolo contrattuale di 24 mesi. Per conoscere tutti i dettagli, ti invito a leggere la Carta dei servizi TIM e le Condizioni generali del contratto TIM.
Restituzione apparecchiature
Per quanto riguarda invece la restituzione della apparecchiature, come nel caso delle modem, questa può essere effettuata mediante pacco postale. La spedizione va fatta all’indirizzo che torvi indicato qui sotto avendo cura di allegarvi la documentazione disponibile sulla pagina del sito Internet dell’operatore dedicata alla restituzione prodotti con i dati dell’utenza (nome, cognome e numero di telefono) ed una copia del documento di riconoscimento in corso di validità (preferibilmente la carta di identità).
Telecom Italia S.p.A. c/o Geodis Logistics, Magazzino Reverse A22, Piazzale Giorgio Ambrosoli snc – 27015 Landriano (PV)
Ti faccio presente che nel caso in cui non dovessi effettuare la restituzione delle apparecchiature entro 30 giorni dalla messa in pratica della procedura per disdire Telecom Italia saranno applicati dei costi di penale per cui… occhio!
A quando la fusione Telecom Italia-Tim?
Dopo la fusione France Telecom-Orange potrebbe arrivare quella Telecom-Tim.
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 14-09-2003] Commenti (2)
Uno dei crucci maggiori di Tronchetti Provera, si sa, è la gestione dell'indebitamento di Telecom Italia ereditato dalla "mitica" Opa di Colaninno e dalle successive operazioni finanziarie dell'acquisto da parte di Pirelli e dalla più recente fusione Olivetti-Telecom Italia.
Si tratta di un indebitamento sotto controllo e ridotto dalla grande operazione di dismissioni che ha visto cedere molte partecipazioni all'estero, la Seat-Pg, la Telespazio, la Netikos, e altre attività. Il debito rimane sempre forte, una palla al piede ed una spada di Damocle sul futuro del maggiore gestore di Tlc in Italia.
Sia Colaninno dopo l'Opa che Tronchetti Provera, appena venuto in possesso dell'azienda, avevano ipotizzato una cessione sul mercato di una quota, intorno al 10%, di azioni di Tim, la "gallina dalle uova d'oro" del Gruppo Telecom Italia, che consentisse a Telecom Italia di continuare a controllare la società di telefonia mobile ma aiutasse a fare cassa.
Il mercato, anzi i mercati internazionali, avevano bocciato questa ipotesi e Colaninno, prima, e Tronchetti, dopo, vi avevano rinunciato. Questa estate molti analisti finanziari hanno, invece, ipotizzato un'operazione contraria, cioè un Opa sull'intero flottante di Tim da parte di Telecom Italia, che, nel breve termine avrebbe aumentato l'indebitamento di Telecom Italia ma avrebbe assicurato a quest'ultima il godimento dei sempre più che buoni dividenti della "regina dei cellulari", garantendo una più serena gestione del debito.
In questi giorni in Francia, France Telecom ha ripreso il pieno controllo di Orange, la sua società nella telefonia mobile, nonostante France Telecom abbia un indebitamento maggiore di Telecom Italia. Questa operazione non sembra, per ora, aver incontrato la disapprovazione dell'Antitrust francese e, tantomeno, quella ancor più importante dell'Antitrust europeo, pur essendo France Telecom tuttora controllata dallo Stato francese che ne possiede la maggioranza delle azioni.
Questo parere è indispensabile: infatti nel 1994 Tim nacque da una costola di Telecom Italia, nonostante la fiera opposizione dei suoi manager di allora, per la decisione dell'Antitrust italiano che riteneva che Telecom Italia potesse approfittare della sua posizione di monopolista assoluto nella telefonia fissa per stroncare sul nascere la concorrenza nel mobile, che cominciava allora, con la concessione all'Olivetti di una licenza per il Gsm, e la nascita di Omnitel (oggi Vodafone).
Fino ad allora Telecom Italia aveva installato i ponti radio per il Tacs, vendeva i telefonini e gli abbonamenti all'187 ma, oggi, l'Antitrust potrebbe ritenere che la situazione è profondamente mutata: il Tacs che aveva solo Telecom Italia non esiste più, c'è una forte concorrenza nel settore della telefonia fissa, che è ancora più forte nel mobile con la presenza di un fortissimo concorrente a livello europeo che è Vodafone, con un gestore Wind che è presente sia nel fisso che nel mobile e la nascita di un gestore per l'Umts che è 3.
La fusione Telecom Italia-Tim potrebbe essere, quindi, il fatto di maggior rilevo economico-finanziario nel 2004 che ci attende: bisogna vedere come reagirebbero i piccoli risparmiatori ad un'operazione che, certo, non li avvantaggerebbe.
Telecom, una triste storia di capitalismo italiano
Sono in molti a stupirsi del passaggio di Telecom Italia sotto il controllo di Teléfonica. Ma i fatti di oggi sono la conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti tra il 1997 e il 2007. Ripercorriamo le tappe di una storia in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.
UN FINALE GIÀ SCRITTO
La notizia che Telecom Italia è destinata a passare sotto il controllo della spagnola Teléfonica, ha avviato la pratica su larga scala di molti sport nazionali da parte di commentatori e politici, con una predilezione particolare per la disciplina detta “cadere dal pero”. Come è possibile che uno straniero controlli un settore vitale come la telefonia? Come è possibile che ciò accada solo in Italia? Come è possibile che gli spagnoli possano acquisire il controllo a un prezzo da saldo e comunque a un prezzo per azione superiore a quello di mercato, dunque in danno degli investitori piccoli e grandi?
Domande di puro buon senso, che peraltro suonano assai stonate, perché i fatti di oggi sono la pura conseguenza di quattro passaggi chiave avvenuti rispettivamente nel 1997 (anno della privatizzazione), nel 1999 (Opa di Roberto Colaninno e soci), nel 2001 (acquisizione senza Opa da parte di Marco Tronchetti Provera) e nel 2007 (acquisizione del controllo da parte di Telco, costituita da banche italiane e da Telefonica, sempre con distinti saluti all’Opa).
I primi tre passaggi sono stati spiegati e documentati con grande chiarezza in un libro di Giuseppe Oddo e Giovanni Pons di oltre dieci anni fa, che dimostra che la società era stata messa su una china da cui sarebbe stato molto difficile risalire. (1) Dunque, non ci sono domande da proporre con sdegno nei talk-show, facendo la boccuccia di chi è esterrefatto perché chi viene interrogato sull’argomento ha il dovere di conoscere i fatti che contano. Per chi invece ha il diritto di ignorarle o di averle dimenticate, vale la pena di ripercorrere le tappe dolorose della storia privata di Telecom Italia e in cui sono condensati tutti i vizi del capitalismo privato italiano.
LA MANCANZA DI UN NUCLEO STABILE DI AZIONISTI
La “madre di tutte le privatizzazioni” (l’operazione fu fondamentale per consentire al Governo Ciampi di ottenere in extremis l’ammissione dell’Italia all’euro fin dalla fase iniziale) non poté disporre di una rete di protezione costituita (come avrebbero voluto Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi) da azionisti disposti a investire nel lungo termine. Il gruppo Fiat, che attraverso l’Ifil aveva acquisito lo 0,6 per cento del capitale (“e capirai” avrebbe detto Alberto Sordi) non solo pretese di comandare, ma dimostrò subito di essere interessata al potere per il potere, piuttosto che alle strategie industriali. Le due imprese del settore (At&t e Unisource) che erano state selezionate dal Tesoro vennero immediatamente estromesse e una persona certo non ostile al gruppo torinese come Antonio Maccanico dovette ammettere: «ci fu una certa inconsistenza del nucleo stabile sulle scelte manageriali, forse dovuta al fatto che loro non conoscevano il settore».
La conseguenza di un’attenzione rivolta solo agli aspetti finanziari è stata che i nuovi acquirenti (così come quelli che si profileranno all’orizzonte dopo) vedevano nel colosso delle telecomunicazioni la grande redditività data dalla posizione monopolistica fino ad allora goduta. Nel 1998, cioè all’indomani della privatizzazione, la società era la quarta in Italia per fatturato e la prima per valore aggiunto; aveva un elevata redditività (l’utile superava l’11 per cento del fatturato) e praticamente non aveva debiti netti: gli oneri finanziari netti non raggiungevano il 2 per cento del fatturato. (2) Le risorse finanziarie generate dalla gestione (calcolate come somma di utile e di ammortamenti) ammontavano a circa 7,5 milioni di euro, quasi la metà del capitale netto. Un gigante, peraltro, con una forte capacità innovativa impegnata in una vigorosa concorrenza con Omnitel nel campo della nascente telefonia mobile. Dunque, tutt’altro che un passivo sfruttatore di rendite monopolistiche, anche se le vecchie strutture tariffarie e la dinamica assolutamente inattesa dei nuovi mercati consentiva di considerare la società come un tipico esempio di quello che, nei manuali di finanza, si definisce una cash cow. Ma gli azionisti del “nocciolino duro” riescono a litigare anche intorno a una torta così grande e dimostrano chiaramente di non avere una vera strategia industriale di lungo periodo. Logico che qualcuno cominci a pensare di prendere il loro posto.
NUOVI SCALATORI E VECCHIE SCATOLE CINESI
Le incertezze e i litigi dei primi mesi della vita di Telecom alimentano, secondo Oddo e Pons, piani di scalata più o meno audaci fin dai primi giorni dopo la privatizzazione. Sarà Roberto Colaninno, che ha raccolto in una finanziaria lussemburghese un gruppo assai variegato di soci, a lanciare nei primi mesi del 1999 l’offerta pubblica per acquisire il controllo della società. Colaninno scende in campo perché ha ottenuto un sostegno incondizionato di alcune grandi banche internazionali che gli mettono a disposizione un assegno in bianco di 60 miliardi di euro, quanto è necessario per dare il via all’operazione. Ma la strada è lunga e vi sono molte battaglie da combattere: quella decisiva è annunciata per l’assemblea straordinaria convocata dal consiglio di amministrazione, che ha un nuovo presidente in Franco Bernabé. Questi cerca disperatamente di evitare una soluzione che può portare (come di fatto avvenne) a rovesciare sulla società la montagna di debiti che hanno consentito la scalata. Il nuovo presidente ha in mente una strategia a due stadi: una difesa da Colaninno attraverso il lancio di un’Opa su Tim e un’alleanza a condizioni paritarie con Deutsche Telekom come premessa di una strategia industriale ambiziosa e internazionale. Entrambe, soprattutto la seconda, costruite frettolosamente e non prive di aspetti critici (Telekom è pubblica e ci sono forti resistenze da parte della politica tedesca sia alla privatizzazione, sia all’alleanza con italiani).
Ma Bernabé non riesce neppure a fare la prima mossa perché l’assemblea straordinaria va deserta: non si presentano né il Tesoro né la Banca d’Italia, in nome di una non meglio precisata “neutralità” imposta dal Governo, allora presieduto da Massimo D’Alema. Mario Draghi, che invece era favorevole a partecipare e valutare con l’assistenza di un advisor l’opzione più favorevole per gli azionisti, chiede e ottiene un ordine scritto. Esattamente come avviene nel grande film di Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria, quando il generale fanatico ordina all’artiglieria di sparare sui propri soldati, colpevoli di essersi ritirati dopo un assalto impossibile.
Il successo dell’Opa comporta la vendita di Omnitel a Vodafone: un’operazione necessaria sia sul piano finanziario per Olivetti, sia per evitare la formazione di un monopolista nel campo della telefonia mobile. E così fra i costi di questa scalata bisogna anche mettere l’uscita dal controllo nazionale della società più dinamica degli anni Novanta.
CAMBI DI CONTROLLO SENZA OPA: BASTA CAMBIARE L’ETICHETTA
Telecom passa di mano con un’Opa, cioè con un’operazione di mercato, ma il controllo della nuova Telecom viene esercitato con le tradizionali armi del capitalismo italiano di relazioni: una bella catena di società a piramide. Bernabé lo aveva detto a chiare lettere ai dipendenti (nonché al governo): “Il passaggio di controllo di Telecom a valle dell’Opa può avvenire su una qualsiasi delle scatole a monte delle quali si esercita il controllo di Telecom”. (3) Un problema che Marcello Messori, in qualità di esperto di Palazzo Chigi, aveva tempestivamente sollevato, in un appunto riservato rimasto sempre senza risposta.
Detto e fatto. A fine luglio 2001, a pochi mesi dalla nuova vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, Marco Tronchetti Provera compra per 4,175 euro le azioni Telecom possedute da Bell (contro un prezzo di borsa di 2,25). E poiché c’è una piramide societaria bell’e pronta, basta acquisire Bell che controlla Olivetti con una quota inferiore al 30 per cento per disporre di Telecom senza bisogno di lanciare l’Opa.
Tronchetti annuncia di avere una visione industriale e di voler accorciare la catena di controllo e si guadagna la fiducia degli investitori (il mercato continua a detenere oltre due terzi delle azioni della società) anche perché la pur breve gestione Colaninno non era stata esente da operazioni assai controverse: basti citare la fusione Pagine gialle – Tin.it di cui è bene ricordare i tratti essenziali. Al momento dell’annuncio, primavera 2000, quindi punto più alto della bolla azionaria, la Seat arriva a capitalizzare in Borsa 72 miliardi, un valore superiore a quello di Eni ed Enel, destinati a scendere a 8 nel giro di un anno e mezzo. Eppure Colaninno impegna Telecom in un’operazione che costa alla società un deflusso di 6,7 miliardi di euro che, essendo transitato nel percorso Torino-Torino per il Lussemburgo (la linea della geografia del nuovo capitalismo non è precisamente retta), non ha lasciato nomi e cognomi dei destinatari finali. (4)
Quando arriva Tronchetti Provera, non solo Telecom è l’esatto contrario di quello che Prodi e Ciampi avevano sognato dal punto di vista del controllo societario, ma i suoi punti di forza sono in gran parte scomparsi, soprattutto dal punto di vista finanziario: i debiti rappresentano ormai il doppio del patrimonio e peseranno come il piombo nelle ali del gruppo. Senza entrare nel merito delle vicende che non è possibile descrivere in questa sede, si può dire che il problema del debito è stato il principale vincolo della gestione dell’ultimo decennio e, combinandosi con una redditività di base fatalmente in declino, ha visto scendere continuamente la redditività di base.
Quello che conta è che il passaggio da un controllore all’altro avviene sempre attraverso le scatole cinesi, secondo la strada tracciata dai “capitani coraggiosi”: prima da Colaninno a Tronchetti (che compra a un alto prezzo nel 2001) e poi nel 2007 da Tronchetti alla solita cordata “di sistema” composta dalle solite banche affiancate, per la prima volta, da un partner industriale straniero: Teléfonica. La società ha bisogno come il pane di capitali freschi, ma i mezzi finanziari che si trovano servono solo a pagare i soci che abbandonano: Colaninno e i suoi amici (gli unici che guadagnano) nel 2001; Tronchetti nel 2007, i soci di Telco probabilmente domani.
IL GIGANTE DELLE TELECOMUNICAZIONI HA I PIEDI DI ARGILLA. E NON È L’UNICO
Dunque, era tutto scritto nel libro di Oddo e Pons uscito oltre dieci anni fa. Quello che i due giornalisti non potevano immaginare era che i disegni industriali di Tronchetti prima e dei soci riuniti in Telco poi, non sarebbero mai stati realizzati per una serie di motivi che meritano un nuovo libro. Né sarebbero stati ascoltati gli inviti degli ultimi anni a rafforzare la base di capitale. L’effetto netto è stato un drammatico declino della redditività di quello che fu il gigante delle telecomunicazioni. Ma ancora una volta, va detto alle anime belle che oggi si stupiscono, che le cattive notizie sullo stato di salute di Telecom non sono una novità: il bilancio 2011 si è chiuso con una perdita di oltre 4 miliardi, destinata a essere seguita dalla perdita di 1,6 miliardi nel 2012.
Nel grafico che segue sono sintetizzati i principali indicatori della drammaticità della situazione e il declino dal 2007 in poi: il peso del capitale sul totale attivo rimane intorno al 30 per cento, ma solo perché è stato drasticamente ridotto il denominatore, dunque perché gli investimenti sono stati tenuti al minimo e sono state dismesse attività (il totale attivo diminuisce del 12 per cento nel periodo). Ma il fatto importante è che la redditività di base cala drammaticamente perché il vecchio business non può dare più i margini di una volta. La cash cow ha esaurito il latte: in soli sei anni il rapporto fra margine netto (ebit = earnings before interest and taxes) e ricavi totali crolla dal 19 al 6,5 per cento. Ovviamente a questo punto, non ci sono più risorse per pagare gli interessi. Se nel 2007 questi ultimi (al netto dei proventi finanziari) assorbivano più di un terzo del margine, oggi non sono più sufficienti e portano il bilancio in rosso.
Giovedì prossimo Bernabé uscirà per la seconda volta di scena e probabilmente si toglierà come nel 1999 qualche sassolino dalla scarpa con una lettera ai dipendenti (l’altra volta aveva facilmente previsto che con Colaninno non si sarebbe data stabilità azionaria alla società) ma fra le sue due dimissioni si è consumato un declino di Telecom che sarà ben difficile rovesciare, anche perché l’aumento in prospettiva del peso di Teléfonica non si sa quali vantaggi industriali porterà, mentre costringerà a cedere le partecipazioni sudamericane. Il che, a parte le conseguenze reddituali, farà di Telecom un’azienda esclusivamente domestica concentrata su un business vecchio. Allegria.
E tutto perché in quasi quindici anni di gestione da parte dei capitalisti privati italiani più o meno coraggiosi, i soldi sono serviti solo per pagare gli azionisti uscenti e quando si è scelto uno strumento di mercato, cioè l’opa, i soldi erano rigorosamente degli altri, cioè presi a debito e subito scaricati sulle spalle della società.
E si badi che la storia di Telecom è la storia di un intero settore, quello dei servizi pubblici, che è stato oggetto di processi di privatizzazione sia nelle aziende di respiro nazionale, sia nelle aziende che gestiscono servizi locali. I dati Mediobanca sulle principali imprese italiane ci dicono che negli ultimi dieci anni, questo settore è stato un enorme dispensatore di dividendi, appunto una mucca da mungere. (5) Innanzitutto in valore assoluto sotto forma di dividendi incassati; come dimostra la linea blu del grafico che segue, il flusso ha superato in alcuni anni i 10 miliardi di euro. Ma se si deducono i capitali freschi immessi dagli azionisti (sotto forma di aumenti a pagamento e sovrapprezzi versati) per definire un aggregato definito un po’ rozzamente “dividendi netti” (linea rossa) il risultato cambia di poco, il che significa che il flusso si è diretto solo dalla società agli azionisti, mai in senso inverso. E infatti il totale dei dividendi del periodo ammonta a oltre 60 miliardi, quello dei capitali immessi a 5, meno di 12 volte.
L’unico dato in crescita è quindi il rapporto fra oneri finanziari e margine lordo (istogrammi del grafico) che passa dal 36 al 90 per cento. Ovviamente, Telecom pesa molto in questi dati, ma è evidente che le fragilità che hanno piegato quello che fu il colosso delle telecomunicazioni sono comuni a molte aziende del settore e dunque neppure un comparto come quello dei servizi pubblici, relativamente protetto dai venti della concorrenza internazionale può considerarsi esente da problemi. E la causa, alla fine, è sempre la stessa: le imprese interessano soprattutto se assicurano un flusso di dividendi, possibilmente facile e i capitali servono a comprare il controllo da altri capitalisti, non a irrobustire patrimonialmente le società.
Forse, per risolvere i problemi nazionali, anziché partire dalla riforma del lavoro, bisognerebbe cominciare dalla riforma del capitale.
(1) Giuseppe Oddo e Giovanni Pons, L’affare Telecom. Il caso politico-finanziario più clamoroso della seconda Repubblica, Sperling & Kupfer, Milano, 2002.
(2) I dati sulla società sono tratti dalla pubblicazione Mediobanca Le principali società italiane, disponibile sul sito
(3) Si veda il libro di Oddo e Pons, pag. 282.
(4) Pag. 201 del libro di Oddo e Pons.
(5) Mediobanca, Dati cumulativi di società italiane, Milano, agosto 2013. Disponibile al sito Va ricordato che i dividendi indicati per ciascun anno sono quelli deliberati (quindi pagati nell’anno successivo
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