Telecom, la dote italo-americana di Telefonica e il salvataggio del sistema
E’ certamente un dato di fatto quello ricordato dal ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, secondo cui è “difficile sostenere che, con la salita di Telefonica in Telco, Telecom Italia diventi spagnola visto che Telco, che possiede un 20% di Telecom Italia, era già a maggioranza Telefonica, che passerà dal 46 al 61 per cento”, con la facoltà di salire al 100% da gennaio in poi. E’ pur vero, però, che la questione del controllo di Telecom da parte di Telco è stata già oggetto di controversie. Lo sa bene Marco Fossati che attraverso la Findim possiede il 4,99% del capitale del gruppo di tlc e che nel 2011 fece una lunga battaglia, con tanto di esposto, per il riconoscimento del controllo di fatto della società da parte della scatola delle banche e di Telefonica. Battaglia che perse in assemblea quando si registrò una presenza superiore al 50% del capitale di Telecom, che non impedì però a Telco di nominare quattro quinti dei consiglieri di amministrazione del gruppo. Zanonato, poi, non può non sapere che con l’accordo siglato lunedì notte, i diritti di Telefonica in Telco, maggioranza azionaria a parte, si avviano a cambiare radicalmente per andare verso un reale controllo della scatola che fino ad ora non era possibile. Quindi non è del tutto scorretto, sebbene formalmente lo sia, affermare che Telecom si prepara a parlare spagnolo. Anche se ci vorrà ancora un po’ di tempo.
La lunga e costosa attesa di Telefonica – Del resto, come già accaduto per la Edison che era stata destinata ai francesi di Edf ben prima del passaggio di mano effettivo curato da Corrado Passera nel 2011, per il gruppo spagnolo si tratta di fatto di un cambio di testimone a lungo atteso e pagato a caro prezzo molto tempo fa. Nel lontano 2007, infatti, Telefonica era entrata in Telco versando una pesante tassa perfino rispetto ai consoci italiani: le azioni Telecom agli spagnoli erano costate 2,85 euro l’una contro i 2,53 spesi dagli italiani che, nonostante la minoranza relativa, avevano pattuito diritti di voto e di veto maggiori di Madrid. Complessivamente l’investimento di Telefonica per il 42,3% di Olimpia da Tronchetti Provera era stato di 2,314 miliardi di euro, contro il 2,829 miliardi spesi dagli italiani per poco meno del 58 per cento. Valori che sono lontani anni luce da quelli attuali di Borsa, dove Telecom, fino a prima dell’accordo, ha oscillato per lungo tempo intorno a quota 0,5 euro per azione, l’85% in meno del prezzo messo sul piatto lunedì dagli spagnoli.
Rimane quindi difficile parlare di uno scippo. Tanto più che Telefonica – che con l’ultima mossa porta a circa 3,155 miliardi di euro (400 milioni dei quali in proprie azioni) il totale che verrebbe speso per rilevare meno del 25% di Telecom – cinque anni fa si aspettava sinergie annue tra i 300 e i 500 milioni di euro da quella che avrebbe dovuto essere “la più grande alleanza del mondo: con i 210 milioni di clienti di Telefonica e i 90 milioni di clienti di Telecom si arriva a un gruppo da 300 milioni di clienti, il più importante del mondo”. Le cose non sono andate proprio così. E la cosa più rilevante che passerà sotto il controllo relativo di Telefonica sono 29,9 miliardi di debiti che si sommano ai 50 di miliardi che pesano sul gruppo spagnolo. Oltre ovviamente alla rete italiana e al sud america.
Dalla rete alle antenne, i tesori e i dolori di Telecom – Il più importante asset di Telecom Italia, la rete nazionale, vale fra gli 8 e i 16 miliardi, sempre che non venga confermato il taglio delle tariffe d’accesso effettuato dall’Agcom la scorsa estate attualmente oggetto di dibattito comunitario. In ogni caso la rete rappresenta la principale garanzia per il pesante debito del gruppo su cui grava anche la spada di Damocle del taglio del rating a “spazzatura”. Oltre ad essere sostanziale per lo sviluppo delle infrastrutture web del Paese e per questo è difficile immaginarlo in mani straniere. In totale sono 110 milioni di chilometri in rame e 4,1 milioni di chilometri di fibra ottica, oltre ad una rete europea e a una in Sud America.
E poi ci sono ben 12mila antenne Tim che potrebbero diventare l’asset principale della nuova Telecom nell’ambito del futuro piano industriale del gruppo. Se confermato. Un patrimonio nel wireless che ha un valore compreso fra 500 milioni e 1 miliardo di euro. Da aggiungere all’elenco, la famigerata Telecom Italia Sparkle, quella della frode carosello, che vende servizi di telecomunicazione, dati e internet in 40 Paesi nel mondo. E poi ancora Cubovision e Olivetti che opera nel settore dei prodotti e servizi per l’Information Technology offrendo soluzioni per l’automatizzazione di processi e attività aziendali alle piccole e medie aziende, oltre al Mux di trasmissione della tv La7.
Tutti asset per cui non mancherebbero i pretendenti, ma la cui cessione è stata finora congelata perché inversamente proporzionle alla possibilità di trovare nuovi soci per il gruppo. Del resto Telecom Italia, spogliata delle sue infrastrutture, non può che perdere valore. E già oggi la società capitalizza appena 7,8 miliardi di euro. Ma è evidente a tutti che il nodo del debitorio va risolto soprattutto in vista della necessità di nuovi investimenti in fibra che la società è chiamata a sostenere per costruire il proprio futuro. Resta sul tavolo l’ipotesi di costituire una newco per la rete assieme alla Cassa Depositi e Prestiti, che porterebbe in dote Metroweb, per procedere nella realizzazione della rete veloce. Ma finora, anche per via delle tensioni ai piani alti di Telco, non è stato possibile raggiungere un accordo nè sul debito che verrebbe accollato alla newco, nè sul numero di dipendenti che sarebbero trasferiti nella nuova società nè tanto meno sul futuro dei lavoratori Telecom che rimarrebbero nella società di tlc.
Consumatori brasiliani sul piede di guerra – La partita Telecom, insomma, è tutt’altro che conclusa. Ma di sicuro Telefonica non intende farsi sfuggire l’epilogo a proprio vantaggio. Non solo e non tanto per il mercato italiano cui gli spagnoli si affacciarono nel lontano con l’avventura Umts di Ipse 2000, finita in un flop. Ma soprattutto per gli asset sudamericani in Argentina e Brasile che rappresentano i più importanti driver di crescita del gruppo. E benchè gli analisti sottolineino i possibili problemi legati alla eccessiva concentrazione in America Latina e all’elevato debito di Telecom, il gruppo guidato da Caesar Alierta, che punta a portare il proprio indebitamento sotto quota 47 miliardi (ma è già a 53 nel primo semestre), tira dritto in vista del cda del prossimo tre ottobre. Poco entusiasta, in ogni caso, il mercato dove il rafforzamento di Telefonica in Italia, non è visto con favore da alcuni analisti finanziari spagnoli. Secondo Ivan San Felix di Renta 4, per esempio, “non ha molto senso perché Telecom è troppo indebitata. Non so se è il posto adeguato al quale la spagnola debba dirigere i suoi investimenti”.
In Brasile intanto sta già montando la rivolta dei consumatori per il fatto che le due aziende insieme avrebbero il 55% di quota di mercato con Telefonica proprietaria dell’operatore Vivo seguito da Tim Brasil come secondo player di mercato: “La cattiva qualità e gli alti costi dei servizi di telecomunicazione tenderanno a peggiorare ulteriormente, per via della riduzione della competitività nel settore”, spiega Maria Ines Dolci, coordinatrice istituzionale della Proteste, la più popolare associazione di difesa dei diritti del consumatore del Brasile. Difficile quindi immaginare che l’autorità locale che vigila sulla libera concorrenza, Anatel, che già in occasione dell’ingresso di Telefonica in Telco aveva imposto severi paletti agli spagnoli nella gestione di Tim Brasil, non intervenga, magari imponendo la cessione della controllata carioca di Telecom.
I soci italiani, da “salvatori” del sistema a salvati. I risparmiatori no – “Per Telecom i grandi soci italiani hanno preso una decisione pessima”, si è intanto affrettato a commentare via Twitter Passera, ex amministratore delegato di Intesa SanPaolo nonché, in qualità di ministro dello Sviluppo economico del governo Monti, firmatario del passaggio di Edison ai francesi per una somma che perfino la Consob si sentì in dovere di correggere al rialzo. Difficile dargli ragione. Anche solo per il fatto che Generali, Intesa e Mediobanca, che pure avevano pagato Telecom 2,53 euro per azione, fino a lunedì avevano all’orizzonte un’uscita ingloriosissima da Telco con le azioni ai prezzi di mercato (un quinto dell’investimento iniziale) e una quota proporzionale del debito di 2,6 miliardi della holding. Così, invece, sono riuscite a farsi pagare le azioni oltre 1 euro (+85% rispetto ai prezzi di Borsa) e a farsi rimborsare 400 milioni di debiti.
Caso esemplare, quello di Mediobanca che il 30 giugno aveva adeguato ai prezzi di mercato la sua quota in Telecom perdendoci 319,7 milioni di euro e, con l’uscita programmata per fine mese, avrebbe dovuto accollarsi circa 320 milioni di debiti. Le cose con il nuovo accordo cambiano parecchio: soltanto con la prima fase di dismissione di Telco, infatti, Piazzetta Cuccia ha ridotto di 35 milioni il prestito soci di sua pertinenza e attraverso il concambio in azioni Telefonica ha realizzato un utile di circa 60 milioni, come ha prontamente comunicato l’istituto nella mattinata di martedì. Film analogo per Generali, che però aveva Telecom in carico a 1,2 euro, ma che ha espresso soddisfazione per “aver concluso questo accordo che è in linea con i nostri obiettivi di rafforzamento patrimoniale e che ci permette di guardare con ottimismo alla distribuzione di un dividendo soddisfacente a fine anno” ai soci del suo salotto, a partire dalla stessa Mediobanca. Trieste, poi, ha fatto sapere che “la svalutazione netta della quota Telco sarà di circa 65 milioni” e che l’intesa con Telefonica “riduce i rischi patrimoniali derivanti dall’eventuale futura cessione a Telefonica”.
Non a caso i maggiori guadagni in Borsa in scia alla notizia, li ha fatti Mediobanca (+3,24%), seguita da Generali (+1,47%) e Intesa Sanpaolo (+0,59%). In parità, invece, Telefonica a -0,09%, mentre Telecom è balzata dell’1,69 per cento. Un rialzo un po’ irrazionale, quest’ultimo, visto che il mercato e, quindi, i piccoli risparmiatori, avrà ben poco da guadagnarci come notava in un colloquio con Radiocor l’ex Commissario Consob, Luca Enriques. “Lo strumento dell’Opa serve per tutelare le minoranze in caso di trasferimento di controllo di una società, ma se non si prevede una soglia prefissata oggettiva, pari attualmente al 30%, oltre la quale far scattare l’obbligo di lanciare l’offerta, sarebbe difficilissimo stabilire, al di là del singolo caso, quando vi è il passaggio di controllo. Ciò provocherebbe una grande incertezza e darebbe una forte discrezionalità politica”, ha premesso. Per poi aggiungere che “in ogni caso operazioni di questo tipo possono danneggiare gli azionisti di minoranza”, ricordando che per Telecom è la terza volta che il cambio di fatto del controllo non passa dal mercato.
Azioni TIM: divisione Brasile acquista attività mobili Oi, che fare?
La nuova ottava dovrebbe apririsi all'insegna delle vendite sui principali mercati azionari del Vecchio Continente, sul cui sentiment impattano non solo i timori legati al rialzo dei tassi di interesse oltreoceano ma anche i nuovi lockdown in Cina.
In questo contesto il nostro FTSE Mib dovrebbe aprire sotto la soglia dei 24.000 punti, sotto i quali aumenterebbero le possibilità di andare a chiudere quel gap rialzista lasciato aperto il 16 marzo nei pressi dei 23.600 punti. Tra i titoli che andremo a monitorare a Milano troviamo Telecom Italia, che di recente ha concluso un'operazione in Brasile. Andiamo a vedere di cosa si tratta.
TIM Brasil acquista una parte di asset mobili in mano ad Oi
In attesa di capire come si evolverà l'interesse di alcuni fondi sugli asset di Telecom Italia, nei giorni passati la divisione brasiliana della società ha concluso un'operazione in Brasile che potrebbe risultare interessante nel lungo periodo.
Infatti con un esborso di circa 7 miliardi di reais, Tim Brasil ha concluso un contratto per acquistare una parte degli asset di telefonia mobile in mano ad Oi. Con questo deal TIM riuscirà a crescere in un Paese dove ci sono solamente 3 operatori che si confrontano con una popolazione di oltre 200 milioni di persone.
La presenza nel Paese dovrebbe portare la società guidata da Pietro Labriola, ad un'importante generazione di cassa, con ricavi ed EBITDA in doppia cifra nel 2022, e alla riduzione del debito. Ricordiamo che la controllata brasiliana di TIM rappresenta al momento uno degli asset più importanti presenti nell'intero gruppo.
Basti pensare che questa vale 7 miliardi di dollari e ha obiettivi di crescita fino a 10 miliardi di dollari, quando a Piazza Affari l'intero gruppo vale solo 6,7 miliardi di euro. Andiamo ora a vedere l'impostazione grafica del titolo.
Azioni Telecom: analisi tecnica e strategie operative
Rimane debole l'impostazione grafica del titolo Telecom Italia che, con discese sotto l'area degli 0,285 euro potrebbe proseguire il trend ribassista in direzione degli 0,27 euro e, a seguire, 0,25 euro. Nel caso in cui quest'ultimo livello dovesse essere rotto, aumentebbero le chance di un ritorno delle quotazioni verso i minimi toccati a marzo 2022 in area 0,22 euro.
Al contrario primi segnali di positività si avrebbero con la rottura delle resistenze situate in area 0,325 euro, sopra i quali si dovrebbero assistere ad allunghi in direzione degli 0,35 euro e successivamente 0,365 euro. Solo con l'eventuale superamento di questi ultimi ostacoli il titolo invierebbe un segnale di forza mettendo in un angolo quella fase correttiva innescatasi dai massimi di novembre 2021, quando i prezzi veleggiavano nei pressi degli 0,5 euro.
Kkr vuole comprarsi Tim. Gli schieramenti in campo
Kohlberg Kravis Roberts (Kkr), colosso Usa con 400 miliardi di dollari di asset in gestione, alza il velo sulla partita per l’acquisizione di Tim.
A costringere il colosso americano dei buyout è stato un articolo del Corriere della Sera, che, evidentemente imbeccato da uno degli attori in gioco, ha scoperto delle carte che si volevano tenere coperte ancora per un po’.
Interpellate domenica da Dealflower, infatti, diverse fonti vicine alla situazione dicevano che l’eventuale offerta formale da parte di KKR era ancora in fase di studio. Ma l’uscita del quotidiano milanese ha accelerato i tempi. Il consiglio di amministrazione di Tim si è riunito d’urgenza e, in serata, è arrivato il comunicato con l’ufficializzazione della manifestazione d’interesse.
L’intenzione, “non vincolante e indicativa” spiega un comunicato della società di tlc rilasciato dopo un cda durato quattro ore, di Kkr è di lanciare un’offerta pubblica di acquisto sul 100% delle azioni ordinarie e di risparmio di Tim finalizzata al suo delisting.
Il prezzo è pari a 0,505 cent per azione, superiore ai 0,35 centesimi di chiusura lo scoro venerdì, per una valutazione della società 11 miliardi di euro, oltre il 60% rispetto al valore della società guidata da Luigi Gubitosi. Un premio che sarebbe tipico per operazioni in questo settore, come accaduto ad esempio con Iliad che lo scorso anno ha pagato agli azionisti un premio analogo per il delisting. La manifestazione d’interesse sarebbe soggetta alla condizione del raggiungimento della soglia di adesione minima del 51% del capitale sociale di entrambe le categorie azionarie. A supportare finanziariamente il fondo nell’operazione sembra esserci Jp Morgan.
Nessun dettaglio è stato fornito sul progetto, ma non sorprenderebbe se Kkr puntasse a lavorare sui singoli asset del gruppo, cedendo le attività non core e gestendo separatamente la rete, che potrebbe finire a Cdp.
La proposta, a detta dallo stesso fondo Usa, è “amichevole” e aspira ad ottenere il gradimento degli amministratori della società e il supporto del management. Essa è, allo stato, “condizionata tra l’altro allo svolgimento di una due diligence confirmatoria di durata stimata in quattro settimane, nonché al gradimento da parte dei soggetti istituzionali rilevanti” tra i quali i due più pesanti sono Vivendi (23,75%) e lo Stato sia tramite Cassa depositi e prestiti (9,81%) sia tramite l’asso nella manica chiamato golden power.
L’improvvisa accelerazione delle trattative per Tim è arrivata dopo che l’operato di Gubitosi è stato messo in discussione, attraverso una lettera, da gran parte dei membri del consiglio di amministrazione. Il deterioramento dei conti e i risultati insoddisfacenti della partnership con Dazn sui diritti per la trasmissione del calcio hanno spinto i consiglieri espressi da Vivendi e gli indipendenti a chiedere di convocare un cda, che era stato fissato per il 26 novembre.
Gli azionisti in campo
Considerando Vivendi, le indiscrezioni degli ultimi giorni davano il gruppo di Vincent Bolloré, rappresentato nel cda di Tim dal ceo Arnaud de Puyfontaine, particolarmente attivo nella richiesta di un cambio ai vertici dopo due profit warning in due mesi. La mossa è sembrata a molti legata all’imminente offerta proveniente da Oltreoceano e ora ci si aspetta una contromossa. Alcune voci parlano di un’operazione su Tim a cui la media company starebbe lavorando con il fondo Cvc (e forse anche Advent) e l’aiuto dell’ex ad del gruppo telefonico, Marco Patuano, oggi senior advisor di Nomura.
Nella giornata di ieri Vivendi aveva ribadito la propria posizione dicendo di essere “un azionista di Telecom di lungo termine, vogliamo collaborare con l’Italia e le istituzioni italiane per il futuro di Telecom a lungo termine” e affermando di non essere a conoscenza “di negoziati con i fondi”. I fondi di private equity Advent e Cvc, tramite un portavoce, si sono detti aperti al dialogo con tutti gli stakeholder per identificare in modo trasparente una soluzione di sistema per il rafforzamento industriale di Tim, ma al momento non hanno presentato alcuna offerta alternativa e soprattutto hanno detto di non aver avuto contatti con Vivendi.
Ciò che è certo è che Vivendì è in perdita, avendo acquisito azioni per 1,071 euro ciascuna. L’offerta di Kkr potrebbe dunque non vedere il favore del primo azionista. Le azioni di Telecom Italia hanno perso circa il 50% negli ultimi cinque anni e il prezzo attuale è di 1,2 volte i guadagni, una frazione delle 14 volte di media dei competitor europei. Il gruppo conta anche un debito di 22 miliardi di euro a fronte di ricavi per 11,4 miliardi di euro nei primi nove mesi del 2021 (-0,4% rispetto al 2020) .
Politica
L’altro giocatore è il governo. Poco dopo la nota di Tim, il ministero dell’Economia ha fatto sapere che “il governo prende atto dell’interesse manifestato da investitori istituzionali qualificati”. Interesse che “è una notizia positiva per il Paese. Se questo dovesse concretizzarsi, sarà in primo luogo il mercato a valutare la solidità del progetto”.
Tim è il maggiore operatore di telefonia del Paese, ha ricordato Via XX Settembre, ed è “anche la società che detiene la parte più rilevante dell’infrastruttura di telecomunicazione”, pertanto il “governo seguirà con attenzione gli sviluppi della manifestazione di interesse e valuterà attentamente, anche riguardo all’esercizio delle proprie prerogative, i progetti che interessino l’infrastruttura”. Obiettivo “è assicurare che questi progetti siano compatibili con il rapido completamento della connessione con banda ultralarga, secondo quanto prefigurato nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con gli investimenti necessari nello sviluppo dell’infrastruttura, e con la salvaguardia e la crescita dell’occupazione”.
Per fare questo il governo avrebbe istituito un super comitato di ministri ed esperti in cui dovrebbero figurare i ministri dell’Economia Daniele Franco, dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, dell’innovazione digitale Vittorio Colao, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, il sottosegretario con delega ai servizi segreti Franco Gabrielli, il consulente economico di Chigi Francesco Giavazzi e il capo di gabinetto del Mef Giuseppe Chinè.
Tutto questo avviene mentre questa settimana il presidente francese, Emmanuel Macron, sarà in Italia per siglare il cosiddetto Patto del Quirinale, un’alleanza a tutto campo tra Roma e Parigi. E non è impossibile ipotizzare che il dossier Tim entri nella partita. Del resto, fanno notare alcuni osservatori, Italia e Francia stanno stringendo i rapporti sul piano economico-finanziario per controbilanciare lo strapotere tedesco.
L’ingresso di Borsa Italiana in Euronext è stato un tassello importante di questo asse Roma-Parigi. Vivendi ha cercato e trovato un accordo con Fininvest su Mediaset, lasciando che il Biscione persegua la strategia di un gruppo media paneuropeo dialogando soprattutto con player tedeschi. Ma Vivendi non ha mollato la presa su Tim. L’unione dei gruppi italiano e francese potrebbe dare vita a un grande player di media e telecomunicazioni, in grado di giocare da protagonista nell’arena globale su connessioni digitali e contenuti. L’alternativa, ovvero una Tim controllata da un fondo americano, non sembra in linea con l’obiettivo della cooperazione fra Paesi europei.
Che succede ora?
Ora la palla è in mano al cda di Tim, presieduto da Salvatore Rossi, in programma per venerdì 26 che al momento sembra confermato.
È evidente che ogni soluzione dovrà vedere la presenza nel capitale di Tim, o di un eventuale gruppo paneuropeo che comprenda la società italiana, di Cdp, attualmente azionista con quasi il 10%. La cassa guidata da Dario Scannapieco è il braccio finanziario del governo e, come accaduto con Borsa-Euronext, sarà chiamata a garantire che la voce dell’Italia abbia il giusto peso. Soprattutto, Cdp sarà chiamata a tutelare gli asset strategici custoditi da Tim, ovvero essenzialmente la rete, nazionale e intercontinentale (in pancia a Sparkle). Kkr ha già in mano il 37% di FiberCop, la società in cui Tim ha convogliato la rete secondaria (dall’armadio in strada alle abitazioni dei clienti). Consegnare anche il resto della rete a Kkr significherebbe mettere in mani americane un pezzo fondamentale delle infrastrutture tecnologiche strategiche. Impossibile pensare che accada, senza adeguati contrappesi e controlli.
Kkr in Italia
Quella su Tim è solo una delle ultime operazioni realizzate dal fondo in Italia, paese che monitora attentamente pur se da Londra. Ad aprile la società ha investito assieme a Fastweb, in un’operazione gestita dal managing director Alberto Signori, in FiberCop, società in cui sono confluite la rete secondaria di TIM (dall’armadio in strada alle abitazioni dei clienti) e la rete in fibra sviluppata da FlashFiber, la joint-venture di TIM (80%) e Fastweb (20%), investendo 1,8 miliardi di euro per il 37,5% della società di cui Tim ha mantenuto il 58%. In Italia il gruppo ha anche la Cmc Machinery di Città di Castello, acquisito nel novembre 2020 e di cui una quota è stata ceduta ad Amazon.